La Poja 1990: un sorso di fiaba

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Presso i greci antichi, la divinità che offriva il vino agli uomini era Dioniso. Aveva due facce: una sotterranea, sofferente e perseguitata, legata alla linfa vitale che si ritrae nel mondo ctonio durante i mesi invernali e torna a scorrere vivida in quelli estivi per donare i frutti della sazietà e del piacere; l’altra era l’estasi e l’ebbrezza che l’uomo si concede quando la vita non è più minacciata dalla penuria dell’inverno. Assieme al vino, Dioniso offriva l’edera, pianta oggi ridotta al rango di ornamento, ma capace di donare visioni, che i greci facevano macerare nel vino per incontrare il destino.
Mi affascina Dioniso, dio della vitalità e dell’eccesso, come mi affascina Persefone, che condivide con Dioniso lo stesso destino di morte e resurrezione e che, al contrario del primo, è dea della misura e della sobrietà. Non fosse stata così sobria nel cibarsi del melograno, sarebbe relegata a vivere perpetuamente nell’Ade con Plutone e invece ogni anno si ricongiunge con Demetra, sua madre, alla luce del sole. Sebbene Persefone non sia direttamente associata alla fermentazione dell’uva, mi piace pensare che anche a lei, alter ego femminile di Dioniso, siamo debitori del vino.
L’occasione per ripensare a Dioniso e a Persefone è stata, l’altra sera, la degustazione di cinque annate di La Poja di Allegrini: 2009, 1997,1992, 1990, 1988.
La Poja è un vino da uva Corvina fina in purezza; la stessa che, appassita assieme alla Rondinella, dà origine all’Amarone. L’uva con cui Allegrini confeziona La Poja, proviene esclusivamente da un piccolissimo altipiano – meno di tre ettari – posto sulla sommità di un colle che delimita ad ovest la Valpolicella e affacciato sul lago di Garda di cui riceve le ultime carezze: terreno poco fertile, bianco di sasso calcareo, abbondante di potassio e calcio.
Chi conosce l’Amarone, sa le caratteristiche del vitigno Corvina: rosso rubino, note pronunciate di ciliegia, speziatura, corpo sostenuto, tannini dolci, grande struttura.
Il bicchiere del 2009 era questo: un vino croccante, forse un po’ esuberante nel frutto, con belle note di pepe nero, tabacco e vaghe reminescenze oscure di sottobosco, lungo al sorso. Un vino solare.
Andando a ritroso lungo le annate proposte, il carattere solare del vino lasciava spazio all’oscurità del sottosuolo nella quale affondano le radici di cui si alimenta la vite. Un’oscurità calda, amichevole, sebbene tagliata da ombre misteriose. A ritroso fino ad uno splendido 1990 il cui bicchiere era un distillato dell’energia oscura della terra. Colore granato intenso e ancora vivace. I profumi che ti aspetti dopo un lungo invecchiamento: note di cacao, tabacco nero turco, nocciola tostata; la spezia lievemente pungente legata all’asprigno della marasca e della ciliegia sotto spirito. Tutto questo certamente, ma la sensazione indimenticabile che ti colpiva era il ricordo netto di china calisaya, di radice di liquirizia, di rabarbaro, su uno sfondo muschiato. Qualcosa di barbaro e ancestrale, prossimo alle atmosfere brumose delle foreste nordiche. Una fiaba nel bicchiere.

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