
Avevo tre anni. Affacciati al finestrino del treno, mia madre mi indicava con il dito una fettuccia azzurra che appariva e spariva fra gli alberi: il mare. Io però pensavo a mio padre che non era con noi.
Sebbene oggi mi sembri incongruo che le cose siano andate così, ancora con le valigie in mano andammo alla spiaggia. O forse la spiaggia era sulla via della pensione dove avremmo alloggiato. O forse, nel ricordo ho messo assieme momenti differenti.
L’acqua pettinava la sabbia a piccole onde. Le intimidazioni di mia madre non bastarono a impedirmi di inseguire i miei cugini nelle tiepide pozze salate lasciate indietro dalla marea.
Scoprii il mare correndo avanti e indietro nell’acqua calda del tramonto, alzando enormi schizzi innocui.
Più tardi, quel mare che mi era parso tanto amichevole, mutò faccia. Avevo paura che mi inghiottisse se ci avessi messo piede dentro. Andai avanti giorni interi ad affacciarmi a questo rischio e a ritornare precipitosamente sulla sabbia calda. A nulla servivano l’esempio dei miei cugini e le rassicurazioni degli adulti.
Risolse la situazione il marito di una mia zia. Mi prese in braccio; entrò in acqua e aprì le braccia. Non ricordo di avere rischiato di annegare; ricordo invece il giubilo di ritrovare il mare amico del primo giorno.