
Il Fibbio è un fiume perenne che sgorga a Montorio, frazione di Verona nella parte nord-orientale del territorio comunale. La sua lunghezza è di 15 chilometri e si congiunge all’Antanello, prima di affluire nell’Adige.
Per anni, è stato teatro di una gara di «zatteroni». La manifestazione consisteva nel navigare per un tratto lungo poco più di un chilometro, da Montorio alle Ferrazze, a bordo di una zattera di legno o bambù, costruita a mano dai partecipanti.
Una volta mi mescolai anch’io alla folla degli spettatori. Seduto sulla riva scoscesa in un assolato pomeriggio di giugno, osservavo un po’ annoiato gli equilibrismi degli equipaggi alle prese con la corrente del fiume. L’acqua rifletteva la luce in mille schegge abbaglianti e il torpore mi ronzava attorno come il moscone che insisteva ad esplorare il mio orecchio destro. Le palpebre mi erano pesanti come il piombo e io mi sforzavo di sbarrare gli occhi per non addormentarmi, ma era una gara senza storia.
Non so cosa mi allertò, fatto sta che colsi una presenza vicino a me, non troppo, ma abbastanza per risvegliare la mia curiosità.
Un uomo sulla sessantina, stava seduto sporto in avanti, con le braccia appoggiate sulle ginocchia e le maniche della camicia arrotolate al gomito. Era smilzo, abbronzato, il naso grosso e schiacciato, i capelli neri e ispidi. Guardava dritto innanzi a sé. Sembrava interessato ad un equipaggio che arrancava con evidente difficoltà, ma in realtà non ne seguiva il movimento. Poi, lo sguardo sempre fisso davanti a sé, cominciò a parlare.
“Una volta, l’ho corsa anch’io questa gara.”
Si interruppe per qualche secondo e si voltò verso di me.
«Alla fine il direttore aveva detto “si”. Merito della buona condotta che avevo tenuto nei due anni di detenzione. Due anni nei quali non avevo chiesto nulla e cercato di dare un senso ai giorni, facendo il bravo ragazzo con i secondini e con i compagni di cella. Salutavo rispettosamente gli agenti di custodia, abbassando gli occhi, e li chiamavo sempre “capo” quando mi interpellavano. Merito anche dell’assistente sociale e dello psichiatra, e di Antonio.
Antonio era un marasca che doveva averne viste tante negli anni di servizio. Mi beneficiava della sua considerazione. Aveva cominciato a chiedermi notizie di casa quando arrivava posta dopo qualche mese che mi avevano cuccato .
Quando Antonio aveva saputo della domanda di permesso premio per buona condotta, era entrato in cella e mi aveva chiesto brusco: «cosa farai se ti danno il permesso?»
«Non lo so», avevo risposto. «Mi basta respirare un po’ di aria libera e mettere i piedi fuori di qua.»
«Perché non vieni con me a correre la gara degli zatteroni?»
«Cosa?»
«Si. Qui a Montorio a giugno c’è questa festa sul Fibbio e la corsa sul fiume con zattere fai-da-te. Sono ormai dieci anni. Dai, penso a tutto io e dopo vieni a cena a casa mia che mia moglie prepara la caponata di melanzane migliore del mondo.»
«Cosa dirà il direttore?»
«Non ti preoccupare. Ci penso io!»
Antonio ci aveva pensato e in un giorno uguale a questo eccomi in mezzo a gente in festa. Non ci ero più abituato ed ero sempre in ritardo quando qualcuno mi rivolgeva la parola. Ero sobbalzato un paio di volte, le mani chiuse a pugno, perché uno mi aveva battuto la mano sulla spalla, ma erano solo concorrenti che volevano presentarsi. Antonio mi aveva fatto conoscere sua moglie; ai suoi bambini mi aveva presentato come un collega e con suo cognato ci eravamo bevuti un paio di bicchieri di vino. Buono, dolce e forte. Recioto, aveva detto.
Arrivò il momento della vestizione: sopra la maglietta e i pantaloni della tuta avevo indossato un salvagente e il giubbetto fluorescente; in testa un caschetto protettivo.
Messo piede sulla zattera, mi tremavano le gambe. Antonio mi consegnò in mano una pertica di bambù e mi strizzò l’occhio.
«Tranquillo! Cerchiamo di arrivare in fondo in piedi, ma anche se cadiamo, non importa. Ci faremo una bella risata.»
All’inizio ero rigido come un baccalà; avevo paura di tradire la fiducia del marasca; avevo paura che il pubblico capisse chi ero; insomma, avevo paura. Poi, un po’ per volta mi ero rilassato. Saranno stati gli applausi, saranno stati gli sfottò che arrivano dalla riva, saranno state le occhiate di intesa che ci scambiavamo io e Antonio. Ormai mi ero adattato anche al movimento della zattera sotto di me e la guidavo spostando il peso sulle ginocchia.
Troppo divertente, troppo. Il traguardo era lì, a pochi metri. Presto saremmo arrivati e mentre sorridevo ancora una volta, un pensiero mi attraversò la testa: “domani non voglio tornare dentro a guardare il cielo sopra al muro grigio del cortile e a respirare il fumo vecchio di quello psicopatico che mi dorme sotto.”
Alzai la pertica e guardai Antonio negli occhi. Mi fissò, scosse la testa; aveva capito che mi stavo congedando e si rannicchiò appena per assorbire il colpo. Lo spinsi delicatamente con la pertica, di punta perché gli volevo bene. Non so se fui io a farlo cadere o se si buttò giù lui. Un movimento di ginocchia per stabilizzare la zattera e via, spingendo il fango sul fondo del fiume, ora da un lato ora dall’altro. Via verso la libertà. Fino a quando mi avrebbero fermato.»