Dopo la burrasca degli ultimi due anni, prende consistenza una nuova idea di viaggio in Germania e con essa il ricordo del passaggio in Foresta Nera. Passaggio, perché di questo si trattò e non di un soggiorno. Andai nella Foresta Nera sulle tracce di Martin Heidegger, suggestionato dal suo scritto breve Warum bleiben wir in der Provinz.
“Quando in una profonda notte d’inverno una furiosa tempesta di neve si scatena con i suoi colpi attorno alla baita e tutto copre e nasconde, è allora il grande momento della filosofia. Il suo domandare deve allora farsi semplice ed essenziale. L’elaborazione di ogni pensiero diviene forzatamente dura e incisiva. La fatica del coniare il linguaggio è simile alla resistenza degli svettanti abeti contro la tempesta. E il lavoro filosofico non si svolge come occupazione solitaria di un eccentrico.
Esso appartiene integralmente al lavoro dei contadini. Come il giovane contadino trascina su per il pendio la pesante slitta cornuta per riportarla poi, carica di ciocchi di faggio, in pericolose discese, giù alla propria fattoria; come il pastore spinge con passo lento e meditabondo il suo gregge su per pendio; come il contadino nella sua stanza appronta con cura le innumerevoli scandole per il suo tetto, così il mio lavoro è dello stesso tipo. Qui si radica l’immediata appartenenza al mondo dei contadini. Il cittadino ritiene di andare “tra il popolo”, quando si degna di condurre una lunga conversazione con un contadino. Quando, alla sera, nel momento della pausa del lavoro, siedo con i contadini sulla panca attorno alla stufa o al tavolo nell’angolo del Signore, per lo più noi non parliamo affatto. Fumiamo in silenzio le nostre pipe. Di quando in quando cade magari una parola sul fatto che il taglio del legname del bosco sta per finire, che la notte precedente la martora si è infilata nel pollaio, che domani probabilmente una mucca figlierà, che il contadino Öhmi ha preso un colpo, che il tempo sta per “girarsi”. L’intima appartenenza del proprio lavoro alla Foresta Nera e ai suoi uomini proviene da una secolare insostituibile permanenza sul suolo alemanno-svevo. Da un cosiddetto soggiorno in campagna il cittadino viene tutt’al più “stimolato”. Il mio intero lavoro invece è portato e condotto dal mondo di queste montagne e dei suoi contadini.”
La tappa più attesa fu Todnauberg, il minuscolo villaggio di 713 anime che ospita la baita di cui racconta Heidegger nel passo citato.
Ricordo che la strada si inerpicava con larghe curve in una foresta antica e scura e raggiungeva una larga cresta dalla quale la vista si apriva su prati e brughiere. Da lì partiva il sentiero verso la Hütte di Heidegger. Due cavalli bianchi e un puledro sauro osservavano dietro ad un recinto elettrificato la piccola processione di turisti che salivano.
Non c’era bisogno di molte parole fra me e Maria Grazia; eravamo vicini e allo stesso tempo soli. Tolsi dalla tasca della camicia il foglio in cui avevo annotato i pensieri di Heidegger, lo lessi alzando tanto in tanto lo sguardo all’intorno.
Pensai che quello dove sostavamo era un luogo buono come è buono lo sguardo di Heidegger nelle fotografie che lo ritraggono.
Riprendemmo la strada per tornare a Freiburg. In città, guardai divertito i bambini che facevano correre lungo le vie vivaci barchette di legno nei bächle di acqua limpida; provai un senso di oppressione nella Münsterplatz, occupata da un Duomo che non si può abbracciare con lo sguardo da nessun lato tanto è grande; mi piacquero le fontane dalle forme obese; pensai che la Kaufhaus aveva qualcosa di iperrealista; mi immersi nella folla di turisti e studenti.
Quattro anni dopo, lessi che per Heidegger una delle due G del suo cognome significava Güte, «bontà» e rividi l’universo armonioso, senza tempo, di Todnauberg, un luogo dove è facile essere buoni perché tutto è sempre uguale a sé stesso e nell’idealizzazione del quale forse si rischia l’idolatria del sangue e del suolo.
Compresi allora perché Todnauberg potrebbe essere un luogo di “vacanza”, ma non potrei viverci a lungo senza provare nostalgia di Freiburg, della città: luogo delle differenze, delle contraddizioni, della superficialità e del conflitto. Insomma, luogo dell’Altro con il quale convivere e con fatica esser-ci.