Fuertwangen im Schwarzwald è una cittadina nel Parco Naturale della Foresta Nera Meridionale, distante una trentina di chilometri da Friburgo e altrettanto da Villingen-Schwenningen. È bagnata dal fiume Breg che sorge nel suo territorio, meta di curiosità perché dalla sua confluenza con un altro fiume, il Brigach, nasce il Danubio.
Furtwangen vive di microelettronica e meccanica di precisione e, nel passato, era sede delle più importanti botteghe in cui si fabbricavano orologi meccanici, in particolare gli orologi musicali. Per questa sua storia, custodisce un piccolo gioiello: il Deutsche Uhrenmuseum (museo tedesco degli orologi), una vera e propria officina del tempo che raccoglie ottomila congegni realizzati per misurarlo.
Visitando il museo, ci si rende conto che non esiste un solo tempo, bensì tempi diversi in funzione delle convenzioni sociali, delle necessità pratiche, delle rappresentazioni del mondo e delle sfide conoscitive del momento.
C’è spazio per gli orologi al quarzo e per i cronometri marini sviluppati nel ‘700 al fine di determinare la longitudine di un punto nel mare.
Preziosi orologi astronomici ci ricordano lontane rappresentazioni dell’universo che echeggiano ancora nella nostra quotidianità. Ad esempio, l’orologio del monastero di Sankt Peter, costruito attorno al 1750, ha cinque quadranti: in uno, la lancetta compie l’intero giro nel corso di un’ora; il secondo segna le ore del giorno; nel terzo si susseguono i giorni del mese e il quarto indica i segni zodiacali dell’anno. L’ultimo quadrante riporta il nome degli astri visibili a occhio nudo dal nostro pianeta, ad avvertirci della loro influenza nelle diverse ore del giorno e della notte.
Incuriosisce lo strano quadrante degli orologi giapponesi (wadokei) del periodo Edo (1603-1868), nel quale il giorno è diviso in 12 unità di misura (tokis), delle quali sei vanno dall’alba al tramonto e sei dal tramonto all’alba, ma non sono di durata uguale; secondo la stagionalità, i tokis diurni sono più lunghi di quelli notturni e viceversa.
Di ora in ora, nelle sale echeggia all’unisono il suono del cucù, ora lontano e ora vicino. E non potrebbe essere diversamente, considerato che l’orologio a cucù è l’emblema della Foresta Nera.
Fu nel 18° secolo che un orologiaio di Schönwald cominciò a inserire negli orologi una suoneria che imitava il verso del cuculo, ma solo dopo il 1850 la casetta del cucù trovò la sua collocazione silvestre, con decorazioni selvatiche e di caccia, e venne arricchita di automi che danzavano, lavoravano o bevevano al ritmo di organetti di Barberia, mentre il cuculo intonava la sua canzone delle ore.
Secondo Elias Canetti, in nessun paese moderno al mondo l’attaccamento al bosco è rimasto vivo come in Germania e ai tedeschi piace visitare la foresta in cui vivevano i loro antenati e sentirsi tutt’uno con gli alberi.
L’orologio a cucù dunque non è solo un congegno meccanico, ma è l’epitome di quel paesaggio di nostalgia, della foresta come luogo naturale e magico, pericoloso e terrifico, ma anche scenario di pietà e redenzione.
Il suono del cucù mi rallegra e mi immalinconisce. Mi ricorda l’incantamento di bambino: io giocavo sul pavimento di casa della nonna e lei mi avvertiva che di lì a poco il cuculo avrebbe cantato e i ballerini sarebbero usciti dalle loro porticine per il giro di danza che aveva la grazia di un trasporto ferroviario.
Io mi mettevo sotto all’orologio, gomiti allargati sul pavimento e testa piantata fra le mani, ad aspettare. E lo spettacolo durava sempre troppo poco. Era uno stato d’animo non privo di un’angoscia sottile perché se quelle bamboline prendevano vita, anche i miei soldatini avrebbero potuto animarsi. Anche la casetta del cuculo, così bella e zuccherosa, era fonte di qualche preoccupazione perché se mi capitava di essere solo nel tinello della nonna, alle volte, quando la luce scemava, mi sembrava di sentire una vocina roca provenire dall’orologio: “chi mi mangia la casina zuccherosa e sopraffina?” Alle volte chiamavo la nonna e a volte resistevo coraggiosamente.