Il Monte San Michele è un modesto rilievo che si sviluppa per circa sei chilometri in direzione est-ovest fra Sagrado e Savogna d’Isonzo. La sua altitudine massima è di 275 metri s.l.m. e il monte domina la bassa valle del fiume Isonzo con ampia visuale che si estende da Gorizia a Monfalcone.
Dal 23 giugno 1915 al 10 agosto 1916 fu teatro di combattimenti fra i più sanguinosi del fronte italiano. Gli imperiali avevano trincerato in maniera formidabile la montagna. Una trincea tortuosa correva a circondare la vetta; una trincea incassata, scavata nel sasso, tutta a svolte, a giri e rigiri, in modo da presentare salienti e rientranti che erano altrettante trappole per chi attaccava. Una seconda trincea stava più indietro, riunita alla prima da frequenti passaggi coperti così che la prima linea risultava costituita da tanti compartimenti stagni “come quelli di un piroscafo moderno il quale non affonda per una falla che ne inondi uno solo”. Contro queste trincee, difese da siepi di filo spinato, dall’artiglieria e da nidi blindati di mitragliatrici si lanciavano i fanti e gli alpini italiani. Un reparto dopo l’altro, al consumo.
Sei grandi offensive e quattordici mesi di assalti, ritirate, contrattacchi, bombardamenti, fuoco di cecchini, scontri fra pattuglie. Non si può neppure dire che il San Michele alla fine capitolò né quanto tempo sarebbe stato necessario ancora agli italiani per conquistarlo perché gli austriaci si ritirarono, accorciando il fronte, senza che gli avversari se ne accorgessero.
Quattordici mesi di fame, sete, pidocchi, freddo, pioggia, neve e malattie per gli uni e per gli altri. Quattordici mesi di paura e di orrore per i lamenti dei feriti che agonizzavano nella terra di nessuno, per i cadaveri insepolti che si decomponevano nella calura di ferragosto e per il lezzo che ammorbava l’aria.
Si calcola che su un fronte lungo 8 chilometri le perdite italiane siano state complessivamente di 120.000 uomini, 20.000 i morti sul campo. Quelle austro-ungariche non furono da meno.
Fra le forze imperiali disposte a difesa del monte vi era il 46° reggimento, composto da soldati provenienti dalla città ungherese di Szeged. Il reggimento venne schierato davanti a San Martino del Carso e nelle prime due offensive italiane dell’estate del 1915 perdette circa 2.300 uomini sul totale di 2.700. Nell’autunno dello stesso anno il reggimento fu schierato a ovest del paese dove respinse gli attacchi italiani nel corso della terza e quarta offensiva autunnale a prezzo di altre gravissime perdite.
Il paese in cui correvano le trincee austro-ungariche era distrutto, bersagliato dall’artiglieria italiana. Il terreno circostante: una discarica di sfasciumi e rocce rotte; di relitti, di armamenti fatti a pezzi, di corpi umani e putredine. La vegetazione era devastata dai colpi e dagli incendi. Non erano rimasti più alberi, ad eccezione di uno, un gelso. Rimaneva in piedi dietro la trincea degli ungheresi e veniva usato dagli italiani per regolare il fuoco dei cannoni, ma rimaneva in piedi. A poco a poco, i soldati del Szeged si affezionarono a quell’albero mutilato, scorticato, violentato dalla guerra; cominciarono a riconoscerlo come uno di loro; a vedere nel suo destino il proprio e ad aggrapparsi alla sua vitalità per sperare nella propria.
L’arciduca Giuseppe Augusto, comandante del VII corpo d’armata che difendeva il San Michele, il 17 maggio 1916 annotava nel suo diario: “siamo andati alla chiesa ormai spianata, al suo posto solo ghiaie sottili. Poco avanti c’è l’albero del 46°, il moro bucherellato da numerose palle. Povero! Sta morendo, ma a dispetto delle ferite e buchi prova a fare alcune foglie, sul torso e su qualche ramo.”
Qualche giorno dopo László Kókai, soldato del reggimento, annotava a sua volta: “Non si può esattamente specificare dove sono le rovine della chiesa, tanto le rovine sono travolte dalla pioggia delle granate italiane, non si distinguono dalle pietre biancheggianti, prive di vegetazione. Davanti alla chiesa l’albero secco, che sta ancora in piedi, ci indica dove doveva sorgere l’enorme santuario del paese di San Martino del Carso. Sull’intero altopiano di Doberdò, sul monte sassoso rasato immacolato, sulle rovine di San Martino, sulla collina della chiesa, sul monte San Michele non c’è più vita, non si vedono piante, steli d’erba e alberi vivi. Sulla collina della chiesa solamente quell’albero troncato, privo di vita, testimonia che una volta qui c’era vegetazione. Con il suo tronco paralizzato l’albero nereggia come un punto esclamativo sul campo di battaglia raso dalla pioggia delle granate.”
Nel mese di Giugno del 1916, il comandante del reggimento propose al comando del VII corpo d’armata il taglio dell’albero ormai ridotto a un tronco nero e rinsecchito e il suo trasporto al museo di Szeged. Il 16 Luglio l’albero arrivò nella città ungherese e, decorato con nastri tricolori, fu accolto da una folla gigantesca. Attorno ad esso avevano combattuto 14000 soldati di Szeged.
Le notizie sull’albero isolato di Doberdò e la fotografia sono tratte dall’opuscolo “San Martino del Carso. Il poeta e l’albero isolato”.
Sempre emozionanti e profondi questi racconti.
Grazie per condividerli con noi.
Max
L’albero del 46° reggimento Honved è stato conservato per anni in un museo di Szeged, quasi di nascosto negli anni del regime comunista, contrario a tali ricordi legati all’Impero austro ungarico.
Ma, nell’estate del 2013, grazie all’interessamento del Gruppo Speleologico di San Martino del Carso (“Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro…di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto…” Giuseppe Engaretti) esso è tornato a San Martino, in una sala appositamente creata, arricchita da cimeli, fotografie, riproduzioni…
Ormai sostenuto da una intelaiatura metallica, ma adorno di una moltitudine di nastri tricolori ungheresi, esso è tornato nel luogo dove vide le sofferenze dei soldati dell’una e dell’altra parte, per diventare il simbolo della resistenza imperiale ed un compagno dei soldati ungheresi che difendevano San Martino: esso è stato ed è ancora “l’albero del 46° Reggimento Honved”. Ma è diventato anche un segno tangibile dell’amicizia che lega il nostro Carso alle terre di coloro che qui combatterono e morirono. “Su queste cime italiani ed ungheresi, combattendo da prodi, si affratellarono nella morte”.
Grazie del contributo Giovanni. Mi risulta che sia rimasto a San Martino alcuni mesi e poi sia ritornato a Szeged.
Vi è rimasto dal 30 marzo al 29 giugno 2013, con una ottima e spesso commossa partecipazione di pubblico. Ma a San Martino c’è anche il piccolo ma ricco museo allestito dal Gruppo Speleo, che merita davvero di essere visitato. Poco sopra il paese il luogo dove si trovava l’albero solitario, vicino alla chiesa distrutta. In alto le quattro cime del San Michele, con la galleria delle cannoniere, le trincee, i ricoveri, che si possono raggiungere con una breve camminata partendo dal piazzale situato poco sotto Cima 3. Tutto intorno il Carso, ancora segnato da trincee e punteggiato da cippi, immenso campo di battaglia quasi un secolo fa, cimitero della gioventù di tanti popoli europei, che proprio per questo deve diventare luogo di rispetto e di pietà.