Fontana Nicolò fu Lorenzo

Il Monte Cimone è una terrazza alta 1000 metri sulla Val d’Astico. Da lassù, il panorama spazia dalla pianura vicentina all’altopiano di Asiago e al massiccio del Pasubio. Si capisce perché gli Austriaci, dopo l’insuccesso della Straexpedition del 1916, fecero di tutto per tenere questo avamposto dal quale potevano spiare comodamente i movimenti delle truppe italiane. E si capisce anche perché, quando gli alpini conquistarono la montagna con ardimento da funamboli, gli austriaci li fecero sloggiare senza tanti salamelecchi, imbottendo la montagna di esplosivo e facendola saltare, soldati e tutto. Si dice che “la cima del Cimone scomparve e con essa le truppe della Brigata Sele, composta da 10 ufficiali e 1118 soldati”.
Adesso sono qua, all’imbocco della Val d’Astico, sotto l’acqua: voglio vedere con i miei occhi che effetto fa una “cima scomparsa”. Non piove quasi più, ma si è alzato un vento ruvido che mi strattona con folate improvvise. Sono zuppo, ho freddo e ho bisogno di confortarmi con un cappuccino. Ad Arsiero, nel giro di pochi passi incontro: l’albergo Alpi, l’albergo Italia Risorta, il bar Tripoli, l’Art Cafè, il bar Nazionale. Entro in quello più vicino a dove ho parcheggiato la motocicletta. Al banco, un uomo sulla sessantina sfoglia il giornale. Capelli grigi come i miei e barbetta caprina. Un bicchiere di vino bianco davanti. Alza gli occhi e mi fa un cenno di saluto.
«Stamatina volea tirarla fora anca mi la moto, ma piovea.»
Rispondo con un mezzo grugnito e continuo a soffiare sul cappuccino che scotta come un dannato.
«Vai a Lavarone?»
«No. A Tonezza e al Cimone.»
«Ah, vai a vedere la mina!»
Il mio cenno di risposta è più convinto. Il cappuccino adesso si è un po’ raffreddato e sono più disposto ad attaccare bottone.
«Quella volta lì son morti in tanti, ciò! Invece, a Arsiero la guerra ha battuto poco, però abbiamo anche noialtri la nostra storia.»
«Che storia?»
«Il paese è stato distrutto. Xè sta’ quando gli Austriaci sono arrivati fin qua co’ la Strafexpetion.»
Ho ancora tutto il tempo per salire al Cimone, l’amico mi guarda aspettando che gli dia l’invito a continuare e così gli dico che non ne so niente.
«Mia nonna mi contava tante storie dela guera e finiva sempre che piangeva. Mi stavo male a sentirla piangere, ma ghe volea ben e stavo lì a ‘scoltarla.»
«Ne prendi un altro?» – per fargli compagnia, ordino un bicchiere di vino anch’io.
«La me contava che anca quando il fronte era quì a due passi, sul Cimone e sulla Pria Forà, in paese la gente era tranquilla, come nulla fosse; anche se le case le tremava tutte, stavano in strada a guardare e contare le bombe che scoppiavano sul forte Corbin. Gerimo tuti stupidi, diceva.»
Beve un sorso di vino per riordinare le idee.
«Il 18 maggio 1916 i carabinieri ordina lo sgombero del paese. Entro due ore tuti devono essere in stazione. La gente la va via de testa. Le suore dell’asilo spalancano i cancei e mandano a casa i fioi par conto suo.»
Altra sosta, altro sorso e un sorriso a fior di labbra, come sentisse ancora la voce della nonna.
«Pensa che c’è stata gente che è andata via con quel che aveva indosso e hanno lasciato nel comò ori e schei. Il curato di Fusine si è presentato in stazione con in mano la gabbia del canarin e quando era a Schio si è accorto che aveva lasciato i soldi della chiesa sula taola.»
«E dopo?»
«Dopo il paese è rimasto abbandonato per tre anni. Quando la gente è tornata indietro, hanno trovato il disastro. Metà delle case erano bombardate e tutte quelle ancora in piedi avevano el querto guasto. La mobilia, tuta sparita. I campi pieni di trincee, bombe e pantegane.»
«Chi è che ha distrutto il paese?»
«Un po’ tutti, ma de più i austriaci perché qua c’era il presidio italiano.»
Guarda l’ora, termina il vino in un sorso e si alza.
«Scusa, ma devo andar via. Vaghe su al Cimone. C’è l’ossario e c’è anche un cimitero austriaco.»
Mi alzo e pago al banco. Il mio vino è ancora intatto sul tavolo, ma non ho voglia di bere. In piazza, il sole illumina l’asfalto e accende la patina verdastra del monumento ai caduti. In un bar poco lontano, uomini col bicchiere in mano “bacaiano” e sghignazzano. Qualche metro più in là un gruppo di ciclisti con la mountain bike si contano per segnarsi chi non è ancora arrivato.
La strada che sale a Tonezza taglia ripida il fianco della montagna; le gallerie si susseguono ai ponti gettati sui canaloni. A destra, il fondo valle si allontana rapidamente, come si decollasse. In poco tempo, sono al grande parcheggio sotto al Cimone, oltre il quale si deve proseguire a piedi nella faggeta.
Il sole gioca col vento a creare riflessi fugaci fra le foglie e la stradina è immersa in una luminosità crepuscolare. L’umidità esalta l’aroma terroso delle foglie morte, ancora lì dallo scorso autunno. Il bosco nasconde le trincee austriache, ma le fotografie del tempo di guerra mostrano che allora la montagna era brulla, un deserto di pietre spezzate che non offriva riparo se non nei buchi fatti dagli uomini. Le trincee erano un labirinto e ogni camminamento aveva il suo nome: l’imperatore, il comandante supremo dell’armata, il principe tal dei tali. Così i soldati avevano un memorandum per maledire chi li costringeva a subire le granate e gli shrapnel dell’artiglieria italiana che tirava per dispetto.
Dove il bosco finisce, il terreno si assottiglia in una breve crestina, larga pochi metri. Ancora pochi passi e sono al cratere della mina. È impressionante, come una gengiva a cui manca un molare. Ancora più impressione fa la piccola galleria che è servita a portare sotto il culo degli alpini quattordicimila chili di esplosivo. Non è difficile immaginare gli operai austriaci bestemmiare in tedesco mentre manovrano i martelli pneumatici al buio e gli alpini che bestemmiano in italiano, avvertendo il loro destino farsi strada sotto ai piedi. Una scalinata alta venti metri conduce al sacrario. Venti metri, tanto è lo spessore di roccia fatto volare in cielo dalla grande mina. Dicono che i sassi ci hanno messo tre minuti a tornare al suolo. Sarà esagerazione, ma anche gli austriaci avevano paura di restare sotto la pioggia di pietre e resti umani.
Giro intorno al monumento che raccoglie le ossa dei caduti. Su un lato è cementata una lapide. “Alpino Fontana Nicolò di Lorenzo, Btg. Val Leogra, 260° compagnia. Vittorioso su questa vetta martoriata il 23 luglio 1916 cadde colpito in fronte mentre ritto sulla trincea contesa guardava con amore alla sua casa posta ai piedi dello Spitz in territorio occupato dal nemico.” Lui non è stato portato via dalla mina. Lui è morto prima, due mesi prima a essere precisi. È morto di nostalgia il giorno in cui gli alpini riuscirono a prendere la montagna. Il giorno in cui ebbe inizio la catena di eventi che portarono alla mina del 23 settembre.
Mi siedo a guardare la fotografia dell’alpino. Il viso, sotto al cappello con la penna, è affilato e incorniciato da una corta barba nera. Gli occhi sono nascosti nelle orbite. Non c’è traccia di sorriso sul volto.
Il sole adesso è alto nel cielo e l’aria si è scaldata. Nessuno intorno. Solo io e la fotografia. Di tanto in tanto, una cinciallegra lancia il suo richiamo: ciucì, ciucì, ciucì, ciucì.
Fontana Nicolò deve essere stato piuttosto basso, di complessione snella. Il naso imponente suggerisce un carattere forte, forse scontroso.
Guardo la fotografia e immagino Fontana Nicolò arrivare all’alba dove adesso sono seduto, le mani che gli tremano, la testa leggera per l’adrenalina che ha in corpo. Un conato di vomito tenta di allentare la stretta che gli paralizza la bocca dello stomaco. Tossisce, ha la gola ruvida come carta vetrata. È arrivato da est, salendo di corsa il pendio, fucile a tracolla e mani che cercano le radici di mugo per aiutarsi. Ha passato la notte ad arrampicarsi in silenzio sulle scale di corda inchiodate alla parete e quando non c’era più scala da salire, si è seduto aggrappato a un sasso, aspettando l’alba. Di dormire non se ne parlava, con gli scoppi senza tregua dell’artiglieria sulla testa; di fumare nemmeno, a trecento metri dalla trincea austriaca. È partito per l’ultimo sbalzo quando l’artiglieria ha allungato il tiro e si è arrampicato senza zaino, con un sacco pieno di granate a mano, le cartucciere colme. Ora è in cima. È arrivato fra i primi e sta accoccolato dietro un masso, appoggiato al moschetto. Gli occhi saettano intorno, in cerca dei commilitoni. Intanto il respiro si è un po’ calmato; la nausea cessata. Beve un goccio d’acqua dalla borraccia. Lui non l’ha riempita con il cognac. Getta uno sguardo oltre il sasso verso la stretta cresta che li divide dalle trincee austriache ancora battute dall’artiglieria.
Quanto sarà distante la sua casa da qua? Se è ai piedi dello Spitz, al massimo un’oretta di buon passo. Forse, c’è stato in permesso a Pasqua. La fotografia mostra un uomo non proprio giovanissimo. Sarà stato sposato Nicolò? Immagino di si; la moglie forse si sarà chiamata Maria. Dunque, tre giorni in licenza a Pasqua, tre giorni a vangare l’orto, “sbrasolarse i fioi” e consolarsi a letto con la Maria.
“La sarà ‘ncora in piè la casa? E la stala? I striaci no i avarà mia copà le vache? E le quatro cavre?” Fontana Nicolò deve essersi ripetuto queste domande ogni notte da quando è cominciata l’offensiva nemica. Non ha paura per la moglie e per i figli. “Garanfati! I ‘striaci i è come noantri! No i è miga diaoli! O Dio, dei Bosniaci se ghe ne sente tante…” – deve essersi ripetuto queste domande ogni notte e adesso che è così vicino a casa, lo pressano e lo travolgono da fargli dimenticare la guerra.
«Ostia! Sito ‘ncantà?» – brontola il sergente che è lì accanto. Fontana Nicolò sbatte gli occhi e si guarda intorno. Lo stretto cocuzzolo del Cimone è pieno di alpini e fanti, tutti aggrappati alla terra, addirittura in fila dietro ai sassi scardinati dai colpi di artiglieria. Perché lì non ci sono trincee, non c’è niente. Gli Austriaci tacciono: sono ancora barricati nella “Hauptstellung”, assordati dai colpi che continuano ad abbattersi su di loro.
Improvviso, il silenzio. Due colpi isolati; tre, come quando terminano i fuochi di artificio, e poi il silenzio. Un silenzio che fa più paura delle bombe. Nulla lo interrompe. Un minuto, due, cinque. I soldati si fanno ancora più piccoli dietro le rocce. Il fumo e la polvere si disperdono. Fontana Nicolò si accorge che è una bella giornata; il sole gli accarezza il viso. Sulla sinistra, il Pasubio e il Carega sembra di toccarli con un dito.
Il silenzio continua, poi il verso della cinciallegra: ciucì, ciucì, ciucì, ciucì. Fontana Nicolò non ci vuole credere e neppure i suoi compagni; lo vede dai loro occhi, dal loro incollarsi al suolo. Eppure il richiamo continua, sulla destra, giù per la val Vallezza: ciucì, ciucì, ciucì, ciucì.
Fontana Nicolò getta un altro sguardo verso la trincea austriaca. Nessun movimento. L’artiglieria italiana ha cessato il fuoco, ma degli austriaci non c’è traccia. “Che i sia morti tuti ‘sti maledeti?”
Torna prepotente il ricordo di casa, lì di fronte; saranno sei chilometri. Torna prepotente il ricordo e la nostalgia di vederla, “almanco” da lontano; di sapere che è ancora in piedi. È pericoloso, ma basta un attimo. Alzarsi in piedi, mirare lo Spitz, scendere lo sguardo fin dove cominciano i prati e controllare se tutto è a posto. Ha la vista buona, Fontana Nicolò ed è svelto. Cosa vuoi che sia! Se anche l’austriaco è rimasto al mondo, prima che possa puntarlo col fucile, lui è già ritornato dietro il sasso. Con gli altri. In attesa degli ordini. No, no, troppo pericoloso!
«Sa feto?», grugnisce il sergente, sospettoso.
«Gnente, gnente». È un attimo. Molla il fucile. Salta in piedi e con un passo è sulla roccia. Il cappello gettato all’indietro, una mano a farsi ombra agli occhi. Guarda lontano, a nord. La casa è là; il fumo esce leggero dal camino. L’erba intorno è verde e gialla di fiori. Si trattiene un momento; vuole imprimersi negli occhi quella visione. Si trattiene un momento. Un momento di troppo. Un colpo di fucile azzittisce la cinciallegra e lo colpisce in fronte, in mezzo agli occhi. Un colpo, uno solo che rotola giù per la valle, spegnendosi nel silenzio innaturale.
Ciucì, ciucì, ciucì, ciucì. Mi alzo a fatica perché la schiena è bloccata. Intorno nessuno. Solo io, la cinciallegra e mille soldati morti. Il vento rinforza e sibila attraverso gli archi vuoti del sacrario. Mi guardo ancora intorno. Saluto con un cenno Fontana Nicolò e mi avvio incerto sulla ripida scalinata che scende nel cratere della mina. Ho sempre avuto paura del vuoto. Poi accelero, prendo confidenza e sono presto in fondo. Cinquanta passi servono per attraversare la sella creata dall’esplosione e una breve risalita per raggiungere il crinale e la crestina. Dalla parte della Bolgia delle Streghe, il passaggio adesso è protetto da una ringhiera, ma è da lì, da quello scivolo di erba e dai quei salti di roccia che di notte si è arrampicato Fontana Nicolò.
Scendo a lunghi passi la stradina del ritorno, scivolando di tanto in tanto sulle foglie bagnate, e l’immagine di Fontana Nicolò si confonde con quella di un ometto basso, segaligno, un baffetto pepe e sale che sembrava posticcio; un ometto un po’ strabico, il volto segnato da un solco chiaro che tagliava il sopracciglio sinistro. Zoppicava come chi non ha la piena libertà di movimento dell’anca. Era mio nonno e anche lui aveva combattuto in prima linea. Aveva una risata squillante e gli piaceva il bicchiere di vino. Ogni tanto ne beveva qualcuno in più e tornava sempre a raccontare storie di trincea. Le figlie lo rimbrottavano come fosse un bambino petulante; le figlie, ma non la moglie, abituata al rispetto e al silenzio quando parlava il marito.

7 pensieri riguardo “Fontana Nicolò fu Lorenzo

  1. Per un attimo hai fatto vedere anche a noi, tuoi followers, questa silhouette nera che si staglia contro un cielo azzurro. Ci hai fatto sentire il suo respiro affannoso e il sibilo di quella maledetta pallottola che in un attimo ha infranto tutti i suoi sogni. Ci hai fatto commuovere ma ahimè!! che tristezza…. Bea

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