Valle di Posina. È una valle chiusa al confine con la provincia di Trento, fatta eccezione per la stradina che si inerpica fra il Pasubio e il Monte Maggio e per quella ancora più stretta che sale al Colle Xomo, intransitabili tutte due per buona parte dell’anno. Nel versante sinistro si diramano misteriose valli tributarie che sembrano portare a nulla e invece ti conducono al cuore di te stesso.
Risalgo lentamente Valle Riofreddo che è valle di silenzio e di acqua, disseminata di mille contrade assediate dal bosco. Sullo sfondo giganteggiano lo scivolo di Spiz Tonezza e la mole del Monte Toraro. A primavera, le case sono perlopiù chiuse, sbarrate, ed è difficile trovare qualcuno a cui chiedere un’informazione o col quale fermarsi a scambiare un saluto, giusto per allontanare la sensazione di essere entrati in un mondo evacuato. Sembra però che d’estate sia diverso e le contrade tornino ad animarsi, come un tempo quando la montagna era tutta coltivata e le corti risuonavano degli strepiti dei bambini.
Dove la strada finisce, in contrada Polo, un cartello rozzamente tracciato e posto sopra la fontana avverte: “attenzione, caduta legna”. Mi guardo intorno; sopra di me un uomo sta tagliando il bosco e prepara i ciocchi per farli scivolare esattamente dove ho fermato la moto. Rimetto in moto e mi sposto frettolosamente di qualche metro per farmi vedere. Faccio un cenno di saluto al boscaiolo, ma è troppo lontano per tentare un minimo di conversazione. Il torrente scroscia impetuoso e la luce polverosa del sole accende il muschio e le primule nel boschetto ancora spoglio di foglie.
Tornando indietro, incrocio due uomini in tuta da lavoro che armeggiano intorno a un furgone. Non ho bisogno di informazioni particolari, ma mi fermo a scambiare due parole. Ho bisogno di distrarmi perché sento crescere un magone che mi innervosisce. Parlo volutamente con loro in dialetto, il mio un po’ più duro del loro, ma abbastanza simile perché possa illudermi di appartenere anch’io a questo mondo. Improvvisa, come la prima folata di vento fresco quando il sole tramonta d’estate, la verità che scioglie il magone e libera il gruppo in gola. Questa valle mi ricorda i suoceri, brava gente di montagna, con i quali ho passato tanto tempo in un posto simile a studiare il cambio delle stagioni, ad ascoltare incantato racconti del tempo perduto e guardare le figlie crescere. Riaccende una dolce nostalgia che non fa troppo male.
Val di Ferro è differente: la strada si snoda fra pascoli e fazzoletti di terra arati di fresco. Tante teleferiche, segnate da vecchi copertoni, si allungano sui costoni scoscesi. Dietro una curva, inaspettatamente, le montagne si allontanano e fanno spazio a un lago immobile nel quale si specchiano le quattro case di Laghi, la chiesa e le montagne che rinserrano la valle. Nel prato accanto, la colonna di fumo bianco di un barbecue appena acceso e le corse senza scopo di due bambini non ancora annoiati.
Due pensionati tirano mezzogiorno poco lontano da dove mi sono fermato. Continuano il loro chiacchiericcio e gettano occhiate curiose alla motocicletta.
«Buongiorno!»
«Buongiorno.»
«La strada va avanti tanto? Dove arriva?»
«Ah, la se ferma un po’ più avanti. Questa xè una vale chiusa, no ghe xé trafico e l’aria è buona.»
«Se vado avanti, cosa trovo?»
«Gnente. C’è il cimitero ‘striaco. Ma mi no ghe son mai stà.»
Saluto con un sorriso, la mano alzata, e proseguo fino al cimitero austriaco di Vanzi-Molini. Poche croci in fila, un portale, una grande croce nera e un paio di pannelli illustrativi. Su entrambi la stessa fotografia mostra quattro donne, senza età e senza femminilità, con falci e falcetti in mano. Accanto a loro, la stessa grande e rozza croce nera e le croci piccole. Sullo sfondo, le case della contrada, scoperchiate e diroccate dai bombardamenti. Oggi, le case sono ancora lì, raccolte intorno al torrente e rimesse a nuovo. Non c’è traccia della sofferenza e della devastazione patite cento anni fa quando la valle dovette essere sfollata con un preavviso di poche ore perché arrivavano gli austriaci. Le pietre non portano ricordo. Ci pensano le parole del parroco di Laghi di allora, trascritte sul pannello: “chi piangeva, chi imprecava, chi si volgeva indietro per dare un’ultima occhiata alla casetta abbandonata con tutto quel po’ di ben di Dio che possedeva, frutto delle sue fatiche. La notte avanzava, la stanchezza opprimeva, la fame si faceva sentire e, soprattutto, dove si va?”
Non è un brutto posto: il torrente canta una ninna nanna sottile, l’aria sa di buono, i torrioni del Monte Maggio sembrano le colonne di una cattedrale gotica, i rumori della vita nella contrada giungono ovattati e rassicuranti. Non è male sostare e sedersi semplicemente a respirare. Fino a quando la pancia avverte che non sarebbe una brutta idea sedersi a tavola.
La Valle di Posina è famosa per le patate e per gli gnocchi. Seguo l’indicazione del pensionato di Laghi e nel giro di dieci minuti sono a tavola.
Antipasto di soppressa vicentina, funghi saltati in padella e polenta abbrustolita per cominciare. Poi, gnocchi di patate con ragù di carne. Buon appetito.
Durante i nostri lenti girovagare, le quattro chiacchiere che si scambiano coi locali sono sempre delle perle da tener stretti e farne tesoro.
Ciao Giulio
Max
Non dico niente, ma penso…
grazie, ciao
leopoldo
Ciao Giulio, sempre molto interessanti i tuoi giri in modo che tra un racconto e l’altro ci permettono di scoprire l’Italia non solo per le bellezze paesaggistiche ma anche per la storia che ha segnato queste terre. Colgo l’occasione per comunicarti che ti ho nominato per il Premio Dardos, spero ti faccia piacere. Non sei costretto a continuare questo giro di e_mail. Un ciao da Bea
http://viaggiandoconbea.wordpress.com/2014/04/05/premio-dardos-ma-non-stiamo-esagerando/
Grazie Bea. Non ho mai apprezzato molto le catene di San Antonio, ma mi fa veramente piacere che tu abbia pensato a me.
anch’io odio le catene ma se lo scopo è quello di conoscerci un po’ di più ben vengano questi premi. Ciaoo Bea
Hai ragione anche tu… ma sono pigro. 🙂