All’ombra di un portico, quattro donne stanno trafficando intorno a un pentolone. Mi avvicino con un sorriso e saluto. Il mio “buongiorno” suscita un’esplosione di risate e un torrente di parole che non capisco. Insisto a sorridere, sebbene mi senta un po’ ridicolo, e mi fermo a guardare quello che fanno. Una di loro, forse la più anziana, tiene nel palmo della mano sinistra una pila di foglie di cavolo lessate e le distribuisce alle comari che pigliano un mucchietto di riso e carne dalla marmitta e lo stendono sulla foglia che arrotolano come un grosso sigaro di cui ripiegano a pacchetto le estremità. Stanno preparando i sarmales e una grande pentola, che non ho visto da lontano, è già piena a metà di involtini, pronti per l’ultima cottura. Sono troppi per il consumo di una famiglia, anche grande; dunque, deve esserci una festa.
«Party? Festa?» In risposta, altre risate e un’altra cascata di parole delle quali capisco solo «Nu». La barriera linguistica stavolta è impenetrabile. Un gesto di resa, il sorriso sempre stampato in faccia, e mi allontano.
Una voce mi rincorre; non capisco una parola, ma so che chiama me. Appartiene a una donna con i capelli neri e una camicetta bianca ricamata, senza foulard. La sua mano mi invita a tornare indietro, mentre parla con tono concitato. Le altre, sedute, si sono zittite e guardano ora lei, ora me. Avrò fatto qualcosa di sbagliato? Mi avvicino e la donna apre il portone alle sue spalle. Continua a parlare con un sorriso amichevole, addirittura implorante. Si interrompe un attimo, osserva interrogativa la mia espressione e riprende il discorso. Più che le parole, i suoi gesti sono un invito a entrare.
La guardo e contemporaneamente sono altrove. Sono con Duncan, ieri sera, nel suo “ufficio”: una panchina sotto la finestra della reception del suo “village hotel”. Lì Duncan intrattiene i suoi ospiti, ascolta i collaboratori e tratta gli affari. Mi ha offerto una horincă e adesso siamo alla quarta; come si conviene in una gara di machismo, le ho tracannate anch’io di un fiato e comincio a sentirmi un tantino leggero.
Sono tre giorni che alloggiamo nel suo villaggio e Duncan mi chiede cosa ho visto del Maramureș.
«Le chiese in legno, i monasteri… i portoni intagliati… la campagna che sembra la contea degli Hobbit… i sorrisi delle persone», rispondo.
«Tutte belle cose, ma il cuore del Maramureș è altrove; sta nei riti di vita e di morte, nei matrimoni e nei funerali. Se ne incroci uno, non fartelo sfuggire.»
Non capisco se si riferisce ai matrimoni o ai funerali.
Mi porge ancora la bottiglia, ma scuoto la testa e sposto il bicchiere.
«Qui la morte di una persona è un fatto che coinvolge ancora tutto il villaggio e i morti devono essere accompagnati nell’aldilà con le dovute pratiche per evitare che se ne abbiano a male e tornino a creare scompiglio.»
Guarda incerto il bicchiere e lo appoggia sulla panca, vicino a sé.
«Quando muore qualcuno, per evitare sventure, i parenti devono offrire preghiere e pomană a tutto il villaggio.»
«Duncan, cosa significa pomană?», biascico, la voce un po’ impastata.
«Già, scusa. La pomană è un banchetto a cui sono invitati tutti quelli che sono stati al funerale, ma non solo. Anche chi passa nelle vicinanze è invitato “per l’anima del morto” e rifiutare l’invito è un’offesa.»
Ritorno alla donna. Mi sta invitando, anzi pregando di unirmi al banchetto funebre di qualcuno di cui è stato celebrato il funerale.
«Ma quando?».
«Ora.» La donna non dice questa parola, ma so che è così. Accetto con un sorriso, sincero stavolta, e chiamo Maria Grazia che ci ha osservati da lontano.
Il salone è ampio. Almeno duecento coperti sono preparati su quattro lunghi tavoli: piatti e posate in plastica, ma ci siamo solo noi.
«Gli altri?» e mi guardo intorno. Come al solito, la risposta è un torrente di parole, ma comunque capisco che è presto. È vero, le cinque e mezza è un po’ presto per un banchetto anche se funebre e siamo i primi a onorare il morto.
La donna versa due bicchierini di horinca e ce li porge.
«Who were the dead?», chiedo.
«My father».
«His name?»
«Vladimir».
«Honour to Vladimir», dico. Alzo il bicchierino e bevo d’un fiato l’acquavite.
La sera Duncan mi dirà che, senza saperlo, ho detto quasi esattamente la formula rituale che l’ospite deve pronunciare ai brindisi: “per l’anima del defunto”.
Nel salone ci siamo solo io e la mia compagna. La figlia di Vladimir prepara un grosso piatto di sarmales, ci mette di fronte una bottiglia di acqua minerale e riprende i preparativi. Siamo gli unici a tavola, ma non ce ne preoccupiamo. Non è una festa, piuttosto un tributo, sebbene gli involtini siano straordinari, i migliori che abbia mangiato.
Dopo un po’ la figlia di Vladimir guarda i nostri piatti vuoti e ci offre una specie di krapfen che rifiuteremmo volentieri, ma un rito è un rito e non si può lasciarlo a metà. Il dolce si rivela piuttosto gommoso e occorre un po’ di buona volontà per arrivare in fondo. Non ci starebbe male un altro bicchierino, ma non so se sia lecito chiederlo.
Gli occhi della figlia di Vladimir brillano quando le prendo le mani fra le mie e accenno un breve inchino. Non è proprio una festa quella a cui ci ha invitato, ma le sono ugualmente grato di averci chiamati al banchetto funebre di suo padre.
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