L’isola di ghiaia divide il letto dell’Isonzo in due parti uguali appena sopra il ponte di Sagrado e la diga che raccoglie l’acqua del fiume per indirizzarla nel canale de’ Dottori. Mi ricorda gli isolotti che da bambino esploravo sull’Adige, dopo le piene, per cercarvi i tesori abbandonati dall’acqua quando la furia si calmava: bottiglie piene a metà di sabbia scura, sedie spagliate, un cappello di feltro quasi nuovo, grumi di penne e mota che dovevano essere stati pulcini. Su quegli isolotti, ho conosciuto anche la morte: si approssimava con l’odore aspro della decomposizione e il ronzio dei mosconi blu. Erano cani e gatti, una volta un maiale; povere spoglie abbandonate nel fango, stravolte nelle fattezze e gonfie di gas. Ci si andava d’estate a fare il bagno nell’acqua bassa fuori dalla corrente, nonostante gli imperiosi divieti di mamma, e a lanciare i sassi piatti per contare i rimbalzi. Ci si andava anche a giocare alla guerra con gran vocio e ciottoli lanciati contro il nemico invisibile.
Sull’isola appena sopra il ponte di Sagrado, la guerra non è stata gioco; dicono, anzi, che lì gli italiani hanno capito cosa li aspettava a cercare di portar via agli austriaci la costa del Monte San Michele e il Carso.
La chiamano “Isola dei morti” e sembra che talvolta si possa raggiungerla a piedi quando l’Isonzo è in secca, ma non doveva essere così ai primi di giugno del 1915, altrimenti la Brigata Pisa non avrebbe deciso il gittamento di un ponte di equipaggio per passare il fiume e dare l’assalto a Sagrado. Tutto avveniva in un clima leggero nella notte fra l’8 e il 9, sebbene non mancasse la paura e ci fossero già state le prime vittime. Racconta il tenente Comelli: «quando, verso la mezzanotte, venne dato l’ordine di uscire dalle trincee, ci disponemmo a partire in file indiane. Percorremmo quel tratto di ponte ultimato fino all’isolotto e là si rimase per due ore circa in attesa che si compisse l’opera. Io credo ancora oggi che eravamo incoscienti o ignari del pericolo che ci incombeva, perché ricordo che tutti ridevamo sommessamente della proibizione assoluta di fumare che ci era stata impartita prima di partire».
La guerra era cominciata da un paio di settimane, ma procedeva a rilento e senza l’ardimento che Cadorna avrebbe voluto. Secondo Lucio Fabi, che ha scavato a fondo nei fatti della guerra sull’Isonzo, i primi scontri fra le pattuglie di cavalleggeri e bersaglieri italiani ed i reparti di confine austriaci, tra il 25 ed il 26 maggio, furono scaramucce di pochi minuti e «si conclusero con tanto spavento, esigue perdite, ma soprattutto con reciproche, precipitose ritirate: ai primi colpi di fucile, alle prime urla di intimidazione, ambedue i contendenti si davano alla fuga. A San Floriano, il primo giorno di guerra una pattuglia austriaca venne sorpresa dagli italiani mentre stava giocando a carte all’osteria del paese; un bersagliere ed un soldato dalmata risolsero a pugni la loro guerra personale in un cortile di San Lorenzo Isontino; a Romans d’Isonzo un gendarme austriaco venne preso prigioniero mentre si attardava a salutare la fidanzata».
La morte in battaglia poteva sembrare ancora un incidente che si poteva evitare con un po’ di attenzione e non la certezza contro la quale combattere giorno e notte.
Prosegue il tenente Comelli: «tranquillamente osservavamo gli scoppi delle granate che si abbattevano sul versante opposto del fiume e motteggiavamo i soldati del Genio che passavano carichi di tavole per la continuazione del ponte oltre l’isolotto. Verso le ore cinque del mattino venne dato l’ordine di attaccare. Il ponte era finito: bisognava passare, disporsi sdraiati di fronte alle trincee nemiche e attendere il fischio del maggiore e il grido di “Savoia!”. Con il mio moschetto carico e il disco rosso assicurato alla schiena attesi il segnale. Ero sul greto del fiume a pochi metri dagli scoppi delle nostre granate che si abbattevano sulle trincee nemiche.
Albeggiava quando venne dato il segnale: tutti balzammo in piedi e via di corsa verso le trincee. Io saltai dentro passando attraverso un varco del reticolato, tenendo stretto il moschetto a baionetta triangolare. Rimasi assai male a non vedere nemmeno la faccia di un austriaco. Proseguii con qualche soldato dei più intraprendenti per alcune diecine di metri, quando si scatenò un uragano di cannonate e di fucilate: queste dirette a noi, quelle al ponte. Dopo pochi minuti fummo attaccati dal nemico e ci difendemmo bravamente a fucilate di modo che non poté avvicinarsi troppo. Il ponte era ormai a pezzi e l’acqua del fiume lo portava verso il mare. D’un tratto passò la voce: “Al fiume”; era il comando di ripiegamento.
Senza scomporci, ognuno di noi faceva dei piccoli balzi indietro tra un colpo e l’altro di fucile, finché non arrivammo al fiume. Sulla riva incominciò allora la lotta a baionettate perché eravamo rimasti tutti senza cartucce: anche gli austriaci credo che non ne avessero, perché ci lanciavano contro certi ordigni a noi allora sconosciuti: le bombe a mano.
Che fare? Mi sembrava che la baionetta non fosse che un gingillo contro i mezzi del nemico. Non mi rimaneva che seguire l’esempio dei compagni di fanteria che si buttavano in acqua per raggiungere l’isolotto; l’acqua non era più alta di un metro e mezzo e non faceva affatto freddo. Raggiunto l’isolotto mi sdraiai sulla sabbia con un centinaio di superstiti; si sperava nell’aiuto dei compagni rimasti al di là del fiume. Eravamo certi che avrebbero gettato un altro ponte.
Ognuno si scavò la propria buca e attese, senza poter reagire alle fucilate degli austriaci trincerati sull’altra riva.
Giornata infernale. Dalle otto del mattino fino alla sera alle nove fummo il bersaglio di tutte le armi nemiche. Fucilate, raffiche di mitragliatrice, cannonate per tutti, vivi e morti. Forse il disco rosso sulla schiena fu la mia salvezza, perché i colpi a me diretti ammazzavano i miei vicini.
Calò la notte. Non venne aiuto di sorta. Ridotti ad una diecina raggiungemmo a nuoto la nostra sponda».
Secondo qualcuno, i morti furono 2.000. Altri ne riducono il numero a 500, in gran parte annegati nel tentativo di ripiegare sull’isolotto.
L’isola di ghiaia divide il letto dell’Isonzo in due parti uguali appena sopra il ponte di Sagrado e la diga che raccoglie l’acqua del fiume per indirizzarla nel canale de’ Dottori. Ci passi accanto sulla strada che porta a Sdraussina. Qualcuno ne ricorda il nome: l’isola dei morti. Tanti non la vedono neppure.
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