Il luogo del fuoco

Con la motocicletta è facile lasciarsi rapire dal dio della velocità e ubriacarsi di sensazioni, come se viaggiare fosse esclusivamente questo. Specialmente in montagna dove curve e tornanti, salite e discese, mutano continuamente la scenografia in cui ci muoviamo. Tutto ciò è entusiasmante e tuttavia vale sempre la pena di cercare una ragione per la quale scendere di sella e guardare le cose più da vicino, a velocità di cammino. Io l’ho trovata andando a incontrare un vecchio conoscente che coltiva e raccoglie piante officinali sul Monte Baldo e insegue il sogno di fare rivivere luoghi abbandonati.

L’appuntamento è a Malga Albarè e la lezione comincia appena commento: «bella questa malga!». Lorenzo sorride e precisa: «la malga non è una costruzione, è un territorio con tutte le sue pertinenze. Quella che tu chiami malga, è il baito e adesso lo visitiamo».

Appena dentro la vecchia porta di legno grigio, incontro gli occhi di un uomo dall’età indefinita: potrebbero essere cinquanta e potrebbero essere settanta. Il viso ha il colore del cuoio scuro, inciso di mille rughe. Non è ostile, ma neppure ansioso di mostrarsi amichevole. Sta versando due taniche di latte in un grande paiolo di rame appeso alla mensola ruotante che Lorenzo chiamerà “mussa”. Una volta serviva per mettere e togliere il paiolo dal fuoco del camino senza scottarsi, ma oggi la sua è solo una funzione scenica poiché il paiolo sarà scaldato su un bruciatore a gas che si può regolare girando un rubinetto.

I gesti dell’uomo sono misurati e sicuri. Sposta lo sguardo fra il paiolo, Lorenzo e me, come a capire cosa Lorenzo gli chiede. Staremo insieme un paio di ore e mi mostrerà come si fa il formaggio, ma le uniche parole che dirà saranno: «mi son nato in malga e l’è ‘na vita dura, durissima. Chi no ghe nato, nol resiste no!», come ad ammonirmi dall’essere tentato di prendere alla leggera il suo mondo.

Siamo nel “logo del fogo” (il luogo del fuoco), la grande stanza dove si cuoceva il formaggio e nella quale vivevano i malgari. Dal soffitto penzolano grandi fasci di erbe ad essicare.
Metà della parete rivolta a nord è aperta sul camino, con la canna fumaria ampia come il braciere, così come nel ‘700 i malgari sapevano costruire.
Sulla destra parte una corta scala che porta al “logo del late”, un’ampia sala dove la mungitura della sera veniva lasciata riposare fino al mattino in modo che la panna affiorasse per farne il burro. Era un burro molto più acido e più giallo di quello che conosciamo oggi e veniva salato per riuscire a conservarlo.
Le finestre del “logo del late” sono sbarrate da grossolane veneziane in pietra che consentono il passaggio dell’aria, ma allo stesso tempo la regolano.

«Guarda bene le finestre del “logo del late” nelle varie malghe: non sono mai rivolte a nord perché il vento freddo rischia di raffreddare troppo il latte e c’è il pericolo che inacidisca.»

Il malgaro mi accompagna nel “sancta santorum” del baito: la “casara”, dove i formaggi dimorano a stagionare. La casara è sotto al “logo del late”, un po’ infossata nel terreno, in maniera che la temperatura sia abbastanza stabile fra il giorno e la notte. Ci si entra da una porta spessa quattro dita e, naturalmente, la chiave sembra quella del paradiso: grande, pesante, in ferro battuto.
Alle pareti lunghi scaffali di legno pieni di caciotte e grosse forme.
Nell’aria il profumo leggero della muffa e del formaggio.

Ogni settimana le forme devono essere raschiate della muffa, una per una, e strofinate di olio. Un bel lavoro che nei caseifici industriali è meccanizzato. Le forme sono quasi tutte vendute ancora prima di essere pronte e ciascuna porta in bella evidenza il cartellino con il nome del proprietario.

Qui viene voglia di essere frugali perché tutto racconta la fatica che è stata necessaria per produrre il formaggio. Ogni boccone che metti in bocca ha il sapore del lavoro che sai essere stato necessario a produrlo, oltre a quello del latte e agli aromi delle erbe e del tempo.

Uscendo, il malgaro mi dice: «verso il Cavallo di Novezza è fiorito il crocus albiflorus; vai a fare un giro.» Sono pochi tornanti e i prati intorno a me sono bianchi e viola di fiori. Mi muovo incerto in tanta bellezza, timoroso di calpestare i fiori e allo stesso tempo tentato dall’oscuro potere che la distruzione eccita nell’animo umano. Vicini sfrecciano i bolidi di chi conosce solo la tentazione dell’adrenalina.
Quando alla fine riparto, la velocità sa di buono, come quando si andava in altalena, tanti anni fa.

Una opinione su "Il luogo del fuoco"

  1. Vale “sempre” la pena di assaporare appieno la natura, i panorami che ci circondano e la cultura che incontriamo !
    Bellissimo post Giulio !
    A presto !
    Max

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