Alba al Rifugio Caltena

Caltena

Nell’incerta luce grigio ardesia, le sagome inconsuete che intravedo intorno mi procurano un leggero smarrimento che presto cede al ricordo: sono al Rifugio Caltena, sopra Transacqua, nella piccola catena delle Pale Alte. Accanto a me, Maria Grazia dorme, il respiro leggero come quando la mente non ha più sogni.
Siamo arrivati quassù ieri sera, all’imbrunire, percorrendo una stradina fra boschi e prati. Una stradina ripida e tortuosa che, a non conoscerla, mette paura che non porti da nessuna parte. Una stradina che sale, sale, sale e ogni volta che incontri una casa, pensi di essere arrivato e invece no, c’è un altro tornante e un altro ancora. Una stradina che all’improvviso sei a una piccola sella e di là una valletta circondata dal bosco ormai nero e sorvegliata da una formidabile muraglia di cime. Lì, alto sui prati, finalmente il rifugio e il sorriso accogliente della signora Angiolina e di suo marito.
Ora è il momento incerto fra la notte e il giorno. Il sonno è passato e rimanere disteso è quasi un tormento. Ho voglia di uscire ad attendere il sole nell’aria che pizzica il naso.
Quando apro la porta che da sullo spiazzo di ghiaia, tutto è silenzioso e anche l’aria è ferma, come sospesa. Non è così freddo come mi aspettavo. Bighellono intorno per qualche minuto e mi avvio sul sentiero che sale al Sasso Padella fra i larici e gli abeti. Il terreno è umido e i miei passi non fanno rumore, così arrivo a pochi metri da uno scoiattolo ai piedi di un tronco già completamente spoglio. Si muove a piccoli scatti intervallati da brevi pause, fruga il terreno con le zampine e gira la testa intorno. Forse una bava di vento o chissà cosa lo avverte della mia presenza e con un balzo eccolo arrampicarsi sul tronco, correre lungo un ramo e saltare su un altro che si flette sotto il suo peso. E via così finché lo perdo di vista nell’intreccio di ombre e luci. Un po’ deluso, aspetto un po’ che ritorni e poi proseguo con passi sempre meno convinti. La cima è lontana e il sentiero è sempre più fangoso. E poi, che ora sarà, mi chiedo. Torno indietro.
Mentre scendo l’ultimo breve strappo prima del rifugio, il sole fa capolino fra Col San Pietro e Monte Neva e accende di fiamme dorate le cime dei larici. Fra poco il sole illuminerà anche il prato, scioglierà la brina che lo imbianca e dissiperà i vapori della notte che fluttuano bassi, laggiù dove le ombre sono più scure. Mi siedo sull’erba indifferente alla guazza gelata. Lontano il motore di un’auto che forse sale, il tonfo sommesso di una finestra, il rintocco fesso di campanacci che escono al pascolo. Passi crepitano decisi sulla ghiaia, una portiera sbatte, il motorino d’avviamento gratta un po’, anche il cambio è rumoroso. L’umidità sale impietosa lungo la schiena e ho freddo, ma poco importa. Il ricordo corre a un’altra alba, ad altre montagne che non conoscono la verticalità della dolomia, a tronchi lisci di abete bianco, al bramito del cervo in amore. Chiudo gli occhi e quando li riapro è giorno fatto: il prato è un mare di perle d’acqua, scintillanti fra gli steli dell’erba, e il bosco una tavolozza di oro e smalti rossi e verdi. Senza cercarle, mi ritrovo sulle labbra le parole di Luca evangelista: “per cui verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte”.

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