PER GORIZIA OGNUN SI PARTì

26 Ottobre 1921, Basilica di Santa Maria Assunta ad Aquileia. Undici bare, di legno grezzo e coperte dalla bandiera, in fila davanti all’altare maggiore. Sono soldati, caduti sulle diverse fronti italiane della Grande Guerra e non identificati. Una donna vestita di lutto, il velo nero a nascondere la sua angoscia, ha il compito di indicarne una, quella che andrà a Roma a rappresentare tutti i militi ignoti nell’Altare alla Patria. Le altre rimarranno lì, nel piccolo cimitero di guerra dietro l’abside della basilica.

Il sarcofago dei dieci Militi Ignoti e la tomba di Maria Bergamas nel Cimitero degli eroi di Aquileia.

Da quel cimitero parte la tappa isontina del viaggio nella guerra dei miei nonni, da quel fazzoletto di terra irto di duecento croci in ferro battuto, delimitato e quasi oppresso da neri cipressi. Ogni croce è ornata da un intreccio di fronde di lauro e quercia che circonda un disco bronzeo con il nome, il reparto e la frase “Dulce et decorum est pro Patria mori”. Sculture, cippi e monumenti funebri di ufficiali comandanti sono sparsi attorno al sarcofago dei Militi Ignoti. Ai piedi, la tomba di Maria Bergamas, la donna che scelse il corpo del soldato, reca quale epigrafe quattro parole, dure come il sasso: “per tutte le madri”.
Il luogo è suggestivo e custodisce personaggi e storie che ne fanno uno dei luoghi principali di commemorazione della Grande Guerra. Però gronda retorica, troppa.
Grondano retorica le parole del Duca d´Aosta, comandante della IIIa armata: “Ma non piangete o Madri. Non piangete che i vostri figli valorosi non sono morti né giammai morranno. Lasciando le spoglie mortali all’oscura terra, essi sono saliti alla gloria dell’immortalità”.
Grondano retorica quelle di D’Annunzio che per via di magniloquenza non scherzava: “O Aquileia, donna di tristezza, sovrana di dolore, tu serbi le primizie della forza nei tumuli di zolle, all’ombra dei cipressi pensierosi. Custodisci nell’erba i morti primi: una verginità di sangue sacro e quasi un rifiorire di martirio che rinnovella in te la melodia. La madre chiama e in te comincia il canto.”
Retorica che mal si sposa con i racconti dei nonni che in guerra c’erano stati e qualche volta si lasciavano sfuggire ricordi che avevano il calore della gioventù passata e la mestizia dell’orrore. È per disincrostare la memoria da tutta quella retorica, narrata a scuola e conservata negli album di figurine di quando ero bambino, che sono in viaggio verso la Valle dell’Isonzo dove il generale Cadorna contava di aprirsi la strada in poche settimane verso Trieste, Lubiana e Vienna e dove si impantanò, riuscendo ad avanzare si e no dieci chilometri in tutta la guerra a prezzo di decine e decine di migliaia di morti e feriti.

Il Cimitero degli Eroi di Aquileia dalla torre campanaria di Poppone. In primo piano la basilica di Santa Maria Assunta.

In linea d’aria, da Aquileia all’Isonzo sono sei chilometri scarsi. In motocicletta, impieghiamo venti minuti a raggiungerlo, seguendo le strade della bonifica isontina. La cavalleria italiana impiegò settantadue ore, sebbene gli austriaci si fossero ritirati di là dal fiume, dietro i ponti distrutti. Le punizioni per la timida condotta di quello che avrebbe dovuto essere un attacco travolgente, colpirono il comando della divisione di cavalleria, ma rimbalzarono in basso lungo la scala gerarchica fino a colpire anche i portaordini accusati di avere sbagliato strada.

La trincea Joffre parte dietro la stazione di Monfalcone e risale la collina fino a quella che fu la prima linea della fronte per due lunghi anni.

Alle spalle di Monfalcone, giacciono addormentati i resti di una città parallela, sorta sui primi spalloni del Carso goriziano fra il giugno 1915 e l’agosto 1916. Baracche e gallerie a ridosso della prima linea che non riusciva a muoversi oltre le posizioni raggiunte dagli italiani nei primi giorni di guerra.
Seguo i sentieri del Parco Tematico della Grande Guerra in un bosco folto di vegetazione. Mi sono allontanato dagli altri per ascoltare il flebile racconto delle pietre. Nel Valloncello degli Aceri, che sale a Quota 104, si scorgono neri monconi di muro e le occhiaie di caverne oggi vuote e che allora brulicavano di vita, sebbene distassero dalla trincea austriaca si e no trecento metri: riservette, ricoveri, comandi e posti di medicazione. Mi siedo su un sasso ad ascoltare il silenzio. Anche gli uccelli sembrano azzittiti. Pare di sentire il brusio di migliaia di uomini sparsi qui intorno, il tintinnare dell’acciaio contro l’acciaio, il lamento di un agonizzante, il battere ritmico del piccone e della gravina intenti ad approfondire la trincea, il nitrito di un mulo e la bestemmia del conducente. Gli spari oggi sono radi e lontani. Una granata sibila ed esplode là in fondo, verso il Tamburo.
Ora sono nei pressi di Quota 121. La trincea austriaca di prima linea non ha l’aspetto formidabile di quelle di massima resistenza: appena un fosso scavato nella pietra per circa un metro – to’, un metro e mezzo – rinforzato da sacchi di terra e pietre. Quelle pietre che, quando ci scoppiavano sopra le granate, diventavano schegge micidiali anch’esse.
C’è aria di mare oggi; profuma di sale e di buono, diversa dalla bora rabbiosa della prima volta che sono stato qui. Allora era gennaio e nonostante i guanti di lana cotta, le mani non le sentivo e non riuscivo a scaldarle nemmeno a sbatterle l’una contro l’altra. Anche allora ero solo e non mi era difficile immaginare i soldati sfiniti, rannicchiati tremanti in fondo a un buco, i piedi gonfi per il gelo, quasi incapaci di muoversi. Non sapevano se era meglio quando pioveva che rabbrividivi fino al midollo o quando il tempo si metteva al bello che allora la temperatura precipitava e il fango crocchiava ghiacciato addosso.

Graffito tracciato, a rischio di fucilazione, da un soldato sul parapetto della trincea.

Da Monfalcone mi dirigo a Sagrado per risalire il ciglione del Carso fino a San Martino e al Monte San Michele, terribile inghiottitoio di vite umane. Attraverso Redipuglia, Fogliano e Polazzo; passo sotto al Monte Sei Busi, accanto al sacrario dei centomila e non lontano dal cimitero di guerra austro-ungarico che ne raccoglie 14.406. Dopo Castelnuovo, devio brevemente sulla strada verso Doberdò del Lago per una sosta alla Trincea delle Frasche, teatro di sanguinosissimi e ripetuti attacchi e contrattacchi nell’autunno del 1915. Un asserragliamento austriaco lungo circa 900 metri, fortificato alle estremità da capisaldi di mitragliatrici, pronte a colpire d’infilata le truppe italiane che cercavano di aprirsi un varco.

Resti della trincea delle Frasche nei pressi di San Martino del Carso. Questa trincea fu luogo di battaglie accanite fra italiani e ungheresi.

Un vecchio cartello giallo, fiorito di ruggine, segnala i resti della trincea affogati nella macchia. Il tono è perentorio, quasi un’intimazione e ce n’è motivo perché qui, forse più che altrove, le pietre potrebbero raccontare l’orrore. Se lasci loro un po’ di tempo, potrebbero mostrarti i cavalli di Frisia austriaci – che oggi non ci sono più – contorti, frantumati in più punti dalle artiglierie e le lugubri figure di uomini, uno sull’altro, impigliate nel filo spinato che cercavano di varcare. Potrebbero guidarti incontro a gruppi di uomini accatastati disordinatamente, la baionetta in canna ancora puntata verso l`obbiettivo della corsa. Potresti non reggere la vista di quelli sfracellati dalle bombe a mano, senza più testa, o col torace infranto o di quelli raggomitolati dietro un mucchietto di sassi, che avevano raggruppato con la mano per far da riparo.
Un po’ più avanti si erge il Cippo dedicato a Filippo Corridoni, figura storica del sindacalismo italiano, che cadde anch’egli in quella battaglia e il cui corpo non fu mai identificato, dilaniato dall’artiglieria come tanti altri. Benito Mussolini, con il quale aveva condiviso idee e azione politica, fece erigere il monumento nel 1933. Un totem alto 23 metri, irto di simboli apologetici: la mano destra aperta in segno di saluto romano, l’aquila che guarda ad est e il fascio littorio.

San Martino del Carso. Non una delle case del paese, né la chiesa, arrivano a cento anni. Nulla rimase in piedi, passata la bufera che batté violenta per diciotto mesi. Raccontano sia sopravvissuto qualche gelso che allora si coltivava per foraggiare i bachi da seta e che compare nelle vecchie fotografie: due, tre al massimo. Uno di essi campeggia di fronte al Museo della Grande Guerra, messo insieme dal Gruppo Speleologico locale con quello che il terreno continua a restituire.
È un piccolo museo, ma offre molto al visitatore. Tutti i reperti vengono dal terreno, nessuno da un magazzino o dall’arsenale, e ciò significa che ognuno di essi porta con sé qualcosa della forza vitale degli uomini con cui è venuto in contatto: quel vecchio fucile corroso, la lama della baionetta, il coperchio di gavetta, la bottiglia di vetro opaco, l’elmetto, la scheggia di granata o la biglia di shrapnel che ha colpito o non ha colpito prima di arrestarsi a terra.
La cima del Monte San Michele è lì dietro, un chilometro appena, e ci puoi salire in motocicletta lungo la Via Sacra, ma è meglio farla a piedi quella strada, sul versante orientale, passando dalla chiesetta diruta, dal valloncello dell’albero morto e dal cippo degli Honved, prima di arrivare alle trincee e alla cannoniera.

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Il cippo fatto erigere dal Duca d’Aosta per onorare la memoria degli italiani e degli ungheresi che si contesero la cima del San Michele lungo durissimi mesi di combattimenti. E’ uno dei pochissimi esempi di riconoscimento del valore degli avversari.

Paolo Pollanzi è interprete di professione, accompagnatore turistico specializzato sulla Grande Guerra nel Progetto “Sentieri di Pace” e raffinato narratore di storie. Lo seguo, assieme ad una scolaresca di Conegliano, sulle modeste balze del monte. Dice che solo da lassù si può capire perché sia stato tanto importante per gli austriaci difenderlo e altrettanto importante conquistarlo per gli italiani. E si capisce anche perché, offensiva su offensiva, la battaglia del San Michele sia costata agli italiani 111.963 fra morti, feriti e dispersi e non molto meno agli avversari.
Paolo racconta dell’attacco austriaco con i gas del 29 giugno 1916 (quasi settemila morti fra gli italiani) e della cannoniera scavata sotto Cima Tre che non vide mai i cannoni perché dovette essere abbandonata in fretta e furia appena completata a causa della rotta di Caporetto, ma è uomo di riconciliazione e si sofferma più a lungo a commentare la lapide che il Duca d’Aosta fece collocare sulla cima per onorare i caduti italiani e quelli ungheresi, in una rara dimostrazione di cavalleria: “su queste cime Italiani e Ungheresi combattendo da prodi si affratellarono nella morte”.
“Oggi, quassù vengono più i discendenti di quei soldati ungheresi che non gli italiani. Interi pullman. Hanno tanti morti da ricordare.”
Già, nelle prime due offensive italiane dell’estate del ’15, solo il 46° Reggimento Szeged perse 2.300 uomini su un totale di 2.700. Duemilatrecento.

Un verso della poesia “Fiumi” di Giuseppe Ungaretti che sul Carso combattè e scrisse “San Martino del Carso”.

Gli chiedo di raccontarmi la storia dell’albero di Doberdò, anche se la conosco già. “Leggiti il diario dell’Arciduca Giuseppe che comandava il VII Corpo”, mi risponde e mi da un libriccino edito due anni fa in occasione della mostra “San Martino del Carso: il poeta e l’albero isolato”, quando l’albero tornò tutto infiocchettato per tre mesi a San Martino del Carso. Tredicimila visitatori! Era dal tempo della guerra che il paese non vedeva tanta gente.
Mi siedo un po’ distante e comincio a leggere.
“28 luglio. Salgo alla chiesa di San Martino, sulla quota 197. La chiesa è ridotta a un rudere. Là sorge un pruno. Mi appoggio e guardo il campo. Cadaveri su cadaveri tra le trincee, non si può pensare a seppellirli, perché le opposte artiglierie battono fortemente tutto il campo. Sento numerosi proiettili che sibilano e ronzano odiosamente, scoppiano con schianto assordante lanciando granate e frammenti di pietre dappertutto. I nostri eroi e i soldati del nemico, con acciaio freddo nel cuore, sono distesi uno accanto all’altro. I cadaveri, continuamente macellati e dilaniati dalle granate, emanano un fetore pestilenziale”.
“4 agosto. Il piccolo moro, accanto al quale mi sono fermato l’altro giorno, sbuca a momenti dai densi scuri sbuffi come fosse un pettinino. Dalla chiesa si ergono polveroni, spazzature e fumo. Grandi spie fiammeggianti segnano tutte le direzioni verso il cielo come se fossero dita fulminanti”.
“24 agosto. L’artiglieria del nemico spara intensamente, la chiesa di San Martino è in rovina e la chioma del povero moro è bruciata dalle granate e seccata dal fumo denso. Povero albero, condivide fedelmente l’amara sorte dei miei eroi!”
“16 novembre. Vicino la chiesa, ridotta a un rudere, sulla quota 197 sorge il pruno morente dei soldati del 46°. Si trova non lontano dietro la linea e viene usato come orientamento per i contrattacchi. Numerosi proiettili italiani e nostri lo hanno trapassato, parecchie granate hanno lacerato il povero albero ormai in fin di vita. Un attaccamento speciale mi lega a quella povera entità vivente che va a pezzi, dato che la sua sorte è tutt’uno con la nostra, perché se ne sta là morente tra i miei morituri eroi di Szeged, e il sangue degli eroi non può cicatrizzare le sue ferite.”
“2 maggio. L’albero dei miei del 46°. Accarezzo il suo lombo ferito pensando ai numerosi compagni caduti, e il mio accompagnatore del 39° mi dice commosso: Questo albero sa benissimo cos’è la guerra! E già, lo sa!”
“17 maggio 1916. Siamo andati alla chiesa ormai spianata, al suo posto solo ghiaie sottili. Poco avanti c’è l’albero del 46°, il moro bucherellato da numerose palle. Povero! Sta morendo, ma a dispetto delle ferite e buchi prova a fare alcune foglie, sul torso e su qualche ramo.”
Al primo anniversario dell’arrivo del reggimento sull’altopiano di Doberdò il tenente colonnello Oszkár Zeiss, comandante del reggimento, propose all’Arciduca Giuseppe il taglio dell’albero ormai ridotto a un tronco nero e rinsecchito e il suo trasporto al museo di Szeged. Il 12 giugno 1916 l’arciduca Giuseppe scrisse nel suo diario: “Sono d’accordo. È una reliquia tanto gloriosa, alla quale sono attaccato come al più grande dei tesori. È l’albero dei miei soldati del 46°”.
II 10 luglio 1916 l’albero arrivò a Szeged in una carrozza chiusa alla stazione di Rókus e il suo arrivo fu un avvenimento per la città. Fu collocato nel museo della città.
È pomeriggio tardo e sono stanco di morte e sofferenza. Avrei ancora in programma di esplorare i campi di battaglia del Calvario e di Oslavia, ma non ne posso più e ho bisogno di riconciliarmi con la vita.
Entro a Gorizia che è buio. Domani si torna a casa, ma stasera è tempo di festa, di risate e di buon vino. È tempo di Terrano del Carso, che ci senti il ferro su cui cresce nella poca terra che si aggruma al fondo delle doline. Profumo selvatico, di frutti di bosco e violetta; moderatamente tannico, se è di quelli buoni, con spiccata acidità e corpo piuttosto vigoroso. Lo accosterò a un piatto di prosciutto crudo del Carso, dolce e profumato come pochi. Poi tornerò a casa, ma sarò ancora qui fra un anno a inseguire il ricordo di ciò che avvenne oltre Doberdò del Lago, verso il Vallone e sulla Bainsizza.

Questo post è una versione leggermente modificata di un articolo comparso sul numero 231 della rivista Mototurismo, giugno 2015.

6 pensieri riguardo “PER GORIZIA OGNUN SI PARTì

  1. Sai sempre emozionare come pochi, Giulio…
    Ho visitato questi luoghi qualche anno fa e tu mi hai fatto ritornare là con le medesime emozioni di allora.
    Max

  2. Ciao Giulio, hai ragione, sedersi su di un sasso ed ascoltare… in certi posti si deve fare così.
    E’ vero che i sassi non parlano, ma in quei luoghi se li sai ascoltare, ti possono raccontare tante cose…

    …e tu le scrivi molto bene 😉

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